giovedì 6 maggio 2010

Per noi, con parole mie...

Si chiamava Alberto.
Era magro, schivo, aveva sempre i capelli corti e un po' di barba.
C'era sempre il suo nome tra i primi nelle liste dei risultati degli esami. In mezzo a quelli dei normalisti, un altro paio, e poi, dietro, tutti gli altri.
Io non riuscivo a capire chi fosse quel Maggi... si nascondeva, almeno ai miei occhi, Alberto Maggi.
Poi, facevamo il terzo anno, qualcosa e' cominciato a cambiare. Com'era successo due anni prima con un altro che era fatto della stessa pasta, Enrico, quasi le stesse parole: "Piacere, finalmente". E un sorriso.

Alberto viveva a Guasticce, vicino a Livorno. Faceva avanti e indietro tutti i giorni. Finalmente una volta lo invitai a pranzo. Ci siamo trovati: era come me, solo un po' meglio. Piu' preciso, piu' lucido, piu' posato, piu' chiaro.

Era la persona perfetta per il nostro "ritiro" a Zuccarello. Io, Alberto, Chiara e Brynmor: due settimane, forse tre.
"Studio matto e disperatissimo", hamiltoniane e autofunzioni, autovalori e potenziali, una partita a calciotennis sul grande terrazzo, una scappata al mare.
La volta bianca del mio lettino e l'odore di umido come solo in certe vecchie case liguri.
E certi momenti di comprensione profonda, certi momenti perfetti, e poi trascinavamo quella sensazione fino alle giostre delle saghe paesane, quando i contorni sfumavano e divenivano formule e numeri, lettere ed equazioni.

E poi siamo tornati a Pisa e un'altro anno e' passato, in mezzo a teoremi ergodici e C*-algebre, Morchio che tartaglia e Di Giacomo che pontifica.

Ci riproviamo, torniamo a Zuccarello un anno dopo. Alberto non viene, quell'esame avrebbe voluto prepararlo con piu' calma in autunno.

Era il principio di agosto, o forse di settembre. Arriva una mail di Alberto.
"Ho la leucemia" c'e' scritto.

Eravamo in cento al primo anno di Fisica a Pisa nel 1998. Due hanno avuto la leucemia, Alberto e Daiana, un altro una strana malattia autoimmune che poi e' svanita da sola, o quasi. Qualcosa non torna in questi numeri, me lo ripeto da quasi 10 anni. Ma me lo ripeto e basta, finisce la'.

Cominciano due anni di speranze e delusioni. Andavo a trovarlo quasi tutte le settimane, quando non era troppo debole per la chemio, a Guasticce, in quella casa dove non ero mai stato prima, quando stava bene.

Chiaccheravamo di tutto, di matematica e fisica, di medicina, ovvio, di politica e sport. Alberto era interista, come molti a Livorno, erede di una tradizione che risale ad Armando Picchi. Anche in questo eravamo simili: il Genoa e l'Inter (che poi Alberto, hai visto che roba l'Inter quest'anno? e Milito? te l'avevo detto che era forte, no? che regalo che vi abbiamo fatto... dovreste almeno ringraziarci!)
Era appassionato e concreto, ironico e acuto, elegante, a modo suo, e severo. Con tutti, con tutto.

A volte Chiara mi accompagnava, restava discretamente in macchina ad aspettarmi, mezz'ora, un'ora. Quelli erano momenti solo per noi.

La prima pagina della mia Tesi di Laurea ha solo due righe, in corsivo, allineate a destra:

ad Alberto,
aspetto di leggere la tua

Poi sono partito per Trieste.
Il sacro fuoco era spento ormai, ma restava qualche tizzone. Gia' mi domandavo se ne valesse la pena. Quante volte ho desiderato che Alberto fosse li', uno di quei posti sarebbe stato suo, di chi altri se no? ma chissa', forse non lo avrebbe voluto... era fatto a modo suo Alberto.
E chissa', se fosse venuto, forse molto sarebbe stato diverso.
Ricordo le decine di volte che pensavo: "Questa cosa posso capirla solo insieme ad una persona, Alberto". Ma lui aveva problemi piu' importanti da affrontare.

Una volta mi disse che non gliene fregava piu' niente, che erano tutte fregnacce, che quando sarebbe guarito si sarebbe iscritto a medicina, che i medici non capivano un cazzo di quello che facevano.
Mi disse che Daiana era stata in un centro di Bergamo: con un'analisi del primo campione di midollo, prima della prima chemio, formulavano una terapia su misura. Daiana e' guarita.
Il "primo campione" di Alberto l'avevano a Firenze, a Careggi. Anzi no, non l'avevano piu', l'avevano buttato via. Inutile, secondo loro.

Una volta, in uno di quei momenti in cui un'equazione suona come un accordo e senti un po' di quell'illuminazione, di quella comprensione lucida e perfetta e vera, di quell'alito leggero che e' il vero motivo per cui facciamo questo lavoro, mi misi davanti al computer e gli scrissi.
"Alberto, c'e' tanto di bello anche fra le nostre carte, c'e' tanto di vero. Ne vale la pena, e c'e' bisogno di te. Fa' presto a tornare".

Un po' stava bene e un po' stava male, andai una volta a trovarlo a Careggi. L'umore, il tono delle nostre conversazioni era lo stesso di quelle a casa sua. Non si lasciava scoraggiare.

A luglio, due anni dopo essersi ammalato, sembrava che stesse meglio. Forse era fuori.
Ad agosto del 2004, ero sul grande letto di Trieste, con Chiara, era una giornata di sole, luminosa come poche, la luce e il mare entravano dalla finestra.
Risposi al telefono, mi alzai in piedi sul letto, era Giacomo, il Presidente, come lo chiamava Alberto.

"Alberto non ce l'ha fatta"

Alberto e' morto di un'emorragia cerebrale, in poche ore, quando tutto sembrava dire che ormai ce l'aveva quasi fatta.

Due giorni dopo eravamo tutti a Guasticce.
Mi ricordo sua madre:

- Beppe, il suo cervellino, cosi' bello, tutto pieno di sangue, tutto pieno di sangue... mi diceva "Io voglio capire ancora tante cose mamma, ci sono ancora tante cose da capire"

- Ora sa tutto, ora sa tutto, non ti preoccupare... stai tranquilla che sa tutto ora...

Ci siamo mossi in molti perche' prendesse quella laurea che meritava.
L'ebbe, un anno dopo, o giu' di li'.
Enore Guadagnini, quando fece il discorso di consegna, disse, piu' o meno:

"Il bene che ha fatto una persona si misura da quante persone sono pronte a fare qualcosa per lui.
A giudicare da quanti siete qua oggi, a giudicare da quanto voi ragazzi avete fatto in questi mesi perche' questo giorno arrivasse, Alberto, anche se ha avuto solo 25 anni per completare il suo percorso, lo ha compiuto fino in fondo. A certe persone non basta una vita per avere tanto affetto intorno a se' come quello che si sente oggi in quest'aula".

Non ricordo se piansi, non ricordo davvero. So che ora non riesco a trattenere le lacrime, e non so perche' proprio stasera ho sentito il bisogno di raccontare questa storia.

Quel giorno, la madre di Alberto diede a ciascuno di noi una busta con una sua foto, la tengo sempre nel mio zaino marrone... Quando vedo tutto nero e mi sembra che niente abbia senso la guardo, la sfioro con due dita senza aprirla, e ritrovo un po' di forza.
Non ricordo esattamente cosa ci sia scritto dietro quella foto...
...il mio zaino marrone, lo porto sempre con me, tre settimane fa mi si e' aperta una bottiglia di detersivo che avevo preso al supermercato dentro il mio zaino marrone... ho tolto tutto per lavarlo, anche la busta, non si era macchiata ma ora... non c'e' piu', non c'e' piu'! Dove ho messo la busta? La mia stanza e' un disastro, non la trovo, dev'essere finita in mezzo a mille carte, ecco forse perche' stasera ho sentito questo bisogno, era un po' che non vedevo la busta nella tasca del mio zaino, ero sicuro di avercela rimessa ma non c'e'!

Ora corro a cercarla, aspetta Alberto, non ti arrabbiare, vengo a cercarti, aspetta, vado...

1 commento:

anonimo ha detto...

"Il bene che ha fatto una persona si misura da quante persone sono pronte a fare qualcosa per lui".

Quanto è vero...

Questa storia è molto triste, invoca le eterne domande, eppure non so perché ha in sé anche qualcosa che suscita una profonda speranza. Forse perché mostra che anche dopo essere morti biologicamente si può lasciare una traccia e, in qualche modo, è come continuare a vivere in un'altra forma.

Saluti